storie e storiette |
Uno spazio libero dove esprimere il proprio parere e raccontare esperienze....
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Sabato 7 maggio abbiamo ultimato i lavori per la realizzazione di uno steccato sulla cengia alla base della falesia "4 Gatti" a Tonezza.
Ringraziamo di cuore tutte le persone che si sono rese disponibili con grande impegno e collaborazione. Un grazie al comune di Tonezza del Cimone che ha sostenuto totalmente la spesa economica per l'acquisto dei materiali.
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Ivo Rabanser 23 maggio 2010 Dal convegno: una via è un'opera d'arte Io riporterò qui come ho vissuto e come mi sono avvicinato prima alla montagna e poi all’apertura di vie di arrampicata. Provengo dalla Val Gardena, dalle Dolomiti, quindi vedo da sempre queste montagne e devo dire che il mio primo approccio all’arrampicata non era quello dell’arrampicata fine a se stessa, ma un mezzo per potere conoscere ed esplorare queste montagne. Quindi ciò che mi attirava soprattutto era l’esplorazione, il gusto dell’avventura, più che l’arrampicata fine a se stessa. Al cospetto di queste grandi pareti succede quello che la montagna ti chiama, ti attira, ti spinge ad approfondire la cosa. Nel mio caso era un percorso molto classico: dapprima le ferrate, poi quelle vie più facili e poi le difficili. Si arrampicava ancora con gli scarponi rigidi, il martello era d’obbligo, a differenza di adesso. Un alpinista che si rispettava doveva imparare a piantare chiodi. Mi ricordo che Malsiner, una guida molto scafata, mi ripeteva spesso: impara a piantare chiodi, altrimenti sarai sempre dipendente da altri che lo facciano per te. E questa era una cosa a cui tenevo, non essere dipendente da altri. In più arrampicavamo anche scalzi, in modo minimalista per abituarci a queste uscite. Una figura che è stata per me molto importante è il mio nonno materno che arrampicava da giovane, molto forte, e lui mi trasmise molte cose tra cui un aneddoto che ripeteva spesso. In tempi di guerra lui si era incontrato con Vinatzer e si erano messi a discutere e parlare e Vinatzer che andava diritto al sodo, gli disse: “Voi avete ripetuto tante vie, però siete ripetitori, come le scimmie”. E quindi mi ha fatto capire la differenza, alpinisticamente parlando, tra un ripetitore e un apritore. E ripeto, me lo diceva spesso. Poi nella mia generazione un testo, un libro che ci ha impegnato molto è il settimo grado di Messner. Ripeto spesso che Messner è uno che ha influenzato l’alpinismo dolomitico come pochi, portando a una nuova visione dell’arrampicata. In quegli anni quello che andava di più era l’arrampicata in placca. Io disponevo più di caviglie solide che di forza fisica in generale, quindi si arrampicava molto in placca. C’era la concezione appunto appresa da Messner, di usare pochi chiodi, pochi mezzi di assicurazione e soprattutto non usare chiodi a perforazione. E chi all’epoca dettava il nuovo verbo era Heinz Mariacher, un austriaco che appunto in quegli anni, inizio anni ottanta, aveva iniziato ad arrampicare la Marmolada, poi ad aprire le vie nuove molto impegnative e soprattutto a formare uno stile appunto con la rinuncia all’artificiale, al chiodo a pressione eccetera. Io ho sempre vissuto l’arrampicata come un mezzo; da una parte c’era l’arrampicatore con la sua capacità e tecnica, dall’altra c’è lui che crea una sorta di interfaccia con la parete, con la roccia, e lui, attraverso la sua capacità, può creare, tracciare una via, che è un po’ quello di dare spazio alla sua creatività. A me la prima volta è successo nell’84. Per me questa scoperta, il potere, il piacere di mettere le mani dove nessuno aveva mai toccato questa roccia, ecco questa capacità mi ha influenzato molto. Tracciare una via fu una grande scoperta, una grande gioia, mi ha arricchito molto in quegli anni. Mi ha dato anche quello che penso in questi anni è molto importante: una collocazione degli obiettivi, ero tutto propenso a questa attività. A scuola non è che brillassi, però come arrampicatore ero il più forte della classe. I miei compagni di scuola collezionavano figurine o giocavano a pallone, io intanto facevo escursioni su una grande parete, in un ambiente, come abbiamo detto prima, primordiale – cioè, dava delle belle sensazioni. All’epoca si arrampicava su placche, la placca era appoggiata e a me faceva molto paura la roccia gialla strapiombante, perché il discorso diventa molto più complesso, anche psicologicamente e anche dal punto di vista della logistica. E come spesso succede, che proprio le cose che un po’ ci fanno paura ci attirano, quindi questa parete gialla, questi muri strapiombanti, dove poi il ritorno diventa sempre più difficile, si sta su più ore, più giorni; tutto diventa più complesso e questa cosa un po’ mi intimoriva. Poi ho conosciuto il qui presente Marco Furlani di Trento e insieme abbiamo salito una via nuova sul Salame (Sassolungo), e lui mi ha dato una nuova impostazione. Poi lo elessi anche a mio maestro, perché ho imparato da lui, penso per un arrampicatore una cosa essenziale: sopravvivere. Marco mi indottrinò in modo profondo, mi disse: sì, ti arrampichi bene, però se vai avanti così, ti porteranno a casa in un lenzuolo bianco. E mi ha insegnato a piantare chiodi, a proteggermi, e soprattutto mi dava quella carica psicologica che anche il giallo è ben superabile, anche se bisogna cambiare tante cose. Quindi mi potevo staccare da quella concezione forse troppo soltanto liberista e avvicinarmi di più a quella di prefiggermi di risolvere il problema, vedere la questione appunto come di trovare la soluzione del problema. Quindi mi liberava delle inibizioni che provavo prima contro questo ambiente molto esposto e mi insegnava anche il fatto dell’aspetto organizzativo di una via. Penso che nell’aprire di una via nuova ci sono tre fasi. Uno: bisogna vedere la via. Secondo: bisogna organizzarla e poi, in fondo: farla. Questi sono, penso, tre fasi di uguale importanza. Io non ho mai avuto mire ad essere un arrampicatore più forte degli altri, sia perché mi sono reso conto di non avere la tendenza diciamo a primeggiare in quel senso, poi neanche l’ostinazione per sottopormi a sedute giornaliere di allenamento da masochismo. Quello a cui tenevo però è di sviluppare un occhio che vedesse, a sviluppare le capacità per risolvere problemi in modo pratico, avere la resistenza, la caparbietà, di potere passare dove altri non erano passati. Quindi ci fu un periodo di salite in cui con amici cercavamo le grandi pareti, vie molto lunghe, le difficoltà massime non a livello altissimo, però di grande impegno, molto complesse, assieme con la parte organizzativa e poi nella soluzione del percorso. Mi attiravano molto le pareti Nord all’ombra, quegli ambienti un po’ tetri, un po’ cupi, e di riuscire ad individuare una bella linea di salita ancora non sfruttata, poi di attaccarla e tirarla fuori; andando a riappropriarsi del sole all’uscita sulla vetta, che è sempre e ogni volta una bella sfida. Su questa attività ci sono molte componenti importanti. Non è che il solo arrampicare basti. Ci vogliono capacità anche proprio manuali come mettere chiodi, di trovare soluzioni. E poi ho sviluppato quel sentimento che l’alpinismo, almeno per me, è così: se tu riesci a divertirti anche quando non c’è da divertirsi. Sembra un paradosso. Quando ormai l’uscita da una via è una lotta per il ritorno, dove l’essenziale è solo uscire senza stare a sottilizzare. Perché finché c’è una situazione su cui possiamo sottilizzare, vuol dire: c’è del margine, penso, almeno io l’ho vissuto così. Invece quando si tratta di tornare a casa, si tratta di uscire, io l’ho sempre vissuto come esposizione. E poi col tempo si sviluppa anche un gusto estetico per la via. Perché a me ha sempre dato soddisfazione primaria o meglio, l’interesse primario era la bellezza di una via, l’estetica, che la via fosse anche pertinente della parete. In questo caso abbiamo una via (viene mostrata una fotografia) che abbiamo chiamato “vent’anni dopo”, per festeggiare un po’ un ventennio di attività esplorativa insieme al mio amico Stefan Comploj. E penso che questo sia un altro aspetto fondamentale per l’apertura di vie, ma in generale per lo scalare in montagna, di trovare i compagni giusti per potere fare queste cose. Nel mio caso avevo la fortuna di avere diversi amici con cui ho potuto condividere questi interessi. Penso che la condivisione dell’obiettivo sia una cosa importantissima. Non è facile trovare le persone adatte per queste cose. Ripeto, questa roccia gialla, queste pareti gialle che prima mi intimorivano, sono poi diventate sempre di più oggetto delle nostre attenzioni e dedizioni. Mi interessava soprattutto attrezzare una via richiesta dalla parete, quindi logica, e con un impiego equilibrato di materiale. Ci siamo un po’ specializzati per limitare al massimo l’uso di chiodi a perforazione, per sviluppare ulteriormente ciò che ho imparato da Marco Furlani, le chiodature, usando zeppi di legno, un rapid? incastrato con una zeppa in un buco. Questo aiutava ad evitare l’uso improprio di chiodi a perforazione. E poi nel corso degli anni ci si forma uno stile. Un apritore forma con la sua attività uno stile e nel nostro caso sono diventate queste vie sulle pareti gialle, con i chiodi, spesso rapid? Con le zeppe di legno. Diventa come un marchio. Io penso che le montagne dovrebbero destare le persone, non sedarle, e quindi penso che un approccio troppo massiccio di chiodi, di protezioni, crea delle vie un po’ da parco giochi. Io non condivido del tutto la concezione sociale dell’alpinismo, che bisogna preparare vie in modo che tutti possano andare, vie preconfezionate; adesso siamo ormai arrivati ad omogeneizzarle, dove tutti, senza avere una preparazione adeguata, senza avere un background anche culturale, possono andare lì, soddisfatti o rimborsati. Secondo me bisogna anche tenere conto che quello di che noi disponiamo, la materia, la roccia, se non siamo molto attenti, dopo un po’ è finita e alle prossime generazioni, cosa rimarrà da fare, come possono esprimersi? Quindi se ci diamo delle limitazioni, e poi ognuno sceglierà le sue, il giuoco durerà più a lungo e durerà anche per chi arriverà dopo di noi, ed è anche più interessante, perché una pista di spit non dà molta soddisfazione. E quindi, cos’è rimasto dopo tutti questi anni? Un po’ passare da un obiettivo all’altro, andando ad adocchiare un bel problema, con il binocolo, studiando bene, tornare a casa contenti ad affilare chiodi e non vedere l’ora a mettere le mani sulla roccia. Allora la cosa per me più bella che mi dava soddisfazione, che continua a darmene, è di avere degli obiettivi interessanti da portare avanti. Per me l’andare in montagna, l’apertura di vie nuove, mi ha dato la possibilità di poter dire la mia, di esprimermi, di poter appunto dare libero sfogo alla mia creatività, e questo è un privilegio non da poco. Ecco, questo è l’ultima immagine, vi ringrazio dell’attenzione. |
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Novembre 2023
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